Ho tirato un gran sospiro di sollievo e ho pensato che dopo due mesi di isolamento in casa era bello vivere la prima giornata all'aperto, benché in ospedale, con la consapevolezza di non essere infetta.
Questa strana riflessione ne ha generate molte altre: alcune già covavano da qualche giorno, sull'onda delle numerose discussioni pubbliche e private seguite al nostro ultimo post sulla fase 2 ed il kayak.
Mi sono quindi decisa a scrivere ancora qualcosa sul blog, per lasciare una traccia di questo strano periodo di pandemia e di isteria collettiva e di rabbia malcelata (le cose che più di altre mi stupiscono sempre moltissimo e che talvolta mi fanno pensare a quanto sarebbe bello restare a tempo indeterminato in isolamento volontario!).
In generale, ho registrato un grande senso di responsabilità nei singoli, una buona risposta della pubblica amministrazione ed una invidiabile capacità organizzativa in moltissimi settori produttivi.
Mi sembra inoltre che, a fronte di un rumoroso silenzio della federazione nazionale (e di altre realtà nazionali che pure rivendicano autorità nel settore), ci sia stata un'ottima reazione allo stato di emergenza nazionale anche nel nostro piccolo mondo delle discipline di pagaia amatoriali.
I vari circoli territoriali si sono subito adoperati per riaprire in sicurezza le strutture sociali agli iscritti, anche se in alcune regioni le ordinanze locali non consentono la piena ripresa delle varie attività sportive. Le molte associazioni di pagaia distribuite sull'intero territorio nazionale hanno trovato mille modi diversi per mantenere vive le relazioni tra gli iscritti, anche durante il periodo di isolamento sociale. I singoli pagaiatori hanno nella maggior parte dei casi dimostrato un profondo rispetto dei decreti ministeriali e, anche nelle regioni in cui le ordinanze emesse sono risultate più restrittive, sono stati avviati costruttivi confronti con le istituzioni locali.
Sembra proprio che nel complesso la nostra piccola comunità di appassionati della pagaia abbia saputo affrontare molto bene l'emergenza sanitaria.
Ma alcune reazioni sproporzionate, sebbene del tutto marginali, mi hanno fatto riflettere.
Come pagaiatori e navigatori dovremmo essere abituati a gestire situazioni impreviste.
Ogni volta che usciamo in mare ci alleniamo per affrontare una possibile emergenza: le onde sono più alte o il vento è più forte del previsto, oppure le condizioni meteo-marine cambiano nel corso della giornata, o ancora un compagno di escursione può sentirsi male o rompere il puntapiedi o perdere gli occhiali. Credo che ognuno di noi abbia affrontato diverse situazioni del genere nel corso della sua breve o lunga vita di kayak. Tutti, prima o poi, abbiamo avuto degli imprevisti ed abbiamo dovuto, nell'ordine, (provare a) mantenere la calma, raccogliere le energie, elaborare un piano di riserva, affrontare la nuova condizione e fare del proprio meglio per rientrare a casa tutti interi.
Il mare dovrebbe essere il nostro miglior maestro ed il nostro allenatore più esigente!
Inutile sarebbe, di fronte ad un imprevisto o ad una emergenza in kayak, mettersi a sbraitare contro il dio dei venti perché non doveva anticipare o aumentare quelle fredde raffiche da nord, oppure iniziare a lamentarsi perché il percorso è più lungo del previsto o le soste sono più brevi di quanto stabilito...
Negli anni sono state elaborate numerose e valide strategie per prevenire o evitare gli incidenti, per gestire le più disparate situazioni di pericolo e per risolvere ogni eventuale emergenza in mare.
Molti insegnanti di kayak si sono specializzati in corsi che in inglese si chiamano di "leadership", "risk assessment" e "incident managment" e moltissimi pagaiatori hanno seguito svariate lezioni analoghe o affini o persino più specifiche, tutti sempre motivati dall'evidente intento di imparare a gestire le emergenze impreviste.
Allora perché in tanti, tra noi kayakers, si sono disperati per la reclusione?
Perché in molti hanno cominciato sin dalle prime settimane a strepitare contro i poteri forti o i diktat nazionali o i complotti internazionali? Perché alcuni hanno pure mostrato un forte risentimento, se non addirittura rabbia, per essere stati privati del sacrosanto diritto di uscire a pagaiare?
E' chiaro che ognuno di noi affronta le situazioni di emergenza in maniera diversa, con stati d'animo e sentimenti differenti, e non voglio certo addentrarmi nel terreno impervio delle nostre paure e delle nostre ansie, perché mai come in questi ultimi due mesi di isolamento ho capito quanto possiamo tutti essere fragili, emotivi, suscettibili, impressionabili ed in fondo comprensibilmente umani!
Vorrei piuttosto capire perché alcuni di noi, pur allenati alle situazioni di emergenza in mare, non hanno saputo affrontare con la necessaria preparazione l'emergenza sanitaria da coronavirus!
Ovvio che si tratta di una drammatica pandemia che ha invaso ogni più remoto ambito della nostra vita quotidiana e che la situazione è tanto più complicata in ragione del fatto che non c'è stato modo di prepararsi, né emotivamente né praticamente né strategicamente.
Bene. Questo può valere per le categorie professionali più disparate, come gli insegnanti che per la prima volta hanno dovuto fare i conti con la didattica a distanza. Ma non mi sembra possa valere per i singoli: nella nostra dimensione individuale, intima e privata, avremmo potuto fare qualcosa di più?
Come mai non abbiamo saputo trasferire le competenze e conoscenze acquisite in mare per (provare a) fronteggiare l'emergenza imposta dal coronavirus anche nella nostra vita quotidiana?
Cosa è andato perso nel tragitto dal mare a casa? Cosa abbiamo dimenticato?
Mi piacerebbe molto discuterne con degli esperti di settore, oltre che con altri appassionati di pagaia.
Ieri, per esempio, ho avuto un interessante confronto con un'amica di kayak che lavora come consulente per la sicurezza sul lavoro: lei anche ha registrato una strana impreparazione tra i suoi colleghi che, pur teoricamente preparati a gestire le emergenze, sono stati in alcuni casi travolti dal panico e dalla polemica.
Stiamo vivendo un grande esperimento sociale e professionale, mi ha detto alla fine.
Ecco, in questa grande prova collettiva, cosa ci ha insegnato il kayak da mare?
A me sembra di poter dire che grazie al kayak e, soprattutto grazie al mare, abbiamo imparato (e possiamo ancora imparare!) ad essere flessibili, tolleranti, pazienti, collaborativi e creativi!
C'è un'altra cosa che mi sento di poter sottolineare con grande convinzione, e che è uno dei pochissimi indubbi vantaggi della pandemia: durante un viaggio in campeggio nautico abbiamo modo di conoscere a fondo i nostri compagni di avventura, perché di fronte a Madre Natura veniamo tutti messi a nudo nella gestione dei nostri più elementari bisogni esistenziali (ho fame, ho sete, ho sonno, sono stanco, dove faccio la pipì etc); così durante l'esperienza del coronavirus abbiamo compreso molto facilmente la vera natura dei nostri vicini, amici e parenti ma anche quella di illustri sconosciuti, perché è proprio durante un'emergenza che le persone danno il meglio ed il peggio di sé!
Ecco, la pandemia è un ottimo esercizio di svelamento della personalità.
Così non c'è neanche più bisogno di condividere un'escursione in kayak per capire esattamente con chi vogliamo accorciare le distanze e con chi, invece, quelle stesse distanze è meglio mantenerle, se non addirittura aumentarle... e senza che lo stabilisca un decreto ministeriale!
Tutte le fotografie che corredano l'articolo sono tratte dalle opere della mostra The art of brick di Nathan Sawaya.
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